Assicurazioni - Rivista di diritto, economia e finanza delle assicurazioni privateISSN 0004-511X
G. Giappichelli Editore

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Claim's made impura e immeritevolezza di tutela (di Ilaria Riva)


Tribunale di Milano
(Sez. I) – 17 giugno 2016 – dott. M. Flamini – DMADP (avv. Brambilla Pisoni) c. P.S. (avv. Gellera), M.C.C. (avv. Mazotti), Generali Italia S.p.A. (avv. Ricciardi).

Se il contratto di assicurazione r.c. professionale esige, ai fini della copertura, che sia la richiesta di risarcimento sia il fatto illecito intervengano nel periodo di efficacia dell’assicurazione, e se tale presupposto, avuto riguardo al caso concreto, è di fatto impossibile, la clausola che lo prevede (c.d. claim’s made impura) è nulla per immeritevolezza (1).

 

 

Il Tribunale ecc. (Omissis)

 

FATTO e DIRITTO

 

Con atto di citazione notificato il 15 marzo 2013, DMADP ha convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, l’arch. M.C.C. e la geometra P.S. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subìti in conseguenza dell’inesatto adempimento degli obblighi professionali sulle stesse gravanti.

Parte attrice ha dedotto: che, nel 2003, aveva affidato alla C.C. l’incarico di predisporre un progetto per il recupero del sottotetto e la ristrutturazione dell’immobile di sua proprietà, sito in Milano, Viale (Omissis); che la direzione dei lavori e la supervisione delle opere veniva poi affidata alla S.; che, in relazione al detto immobile, erano state presentate più DIA (resesi necessarie in seguito all’iniziale parere negativo formulato dalla pubblica amministrazione) ed erano poi stati depositati documenti integrativi per la completa istruzione della pratica edilizia; che i lavori di ristrutturazione si erano conclusi il 5 giugno 2006 e che, solo il 25 agosto 2008, il Comune di Milano aveva comunicato di aver avviato un procedimento per la verifica delle opere realizzate, in quanto era stato superato il limite di altezza massima dell’edificio; che, con comunicazione del 25 marzo 2009, inviata al Comune di Milano, la S. aveva riconosciuto che era stata superata l’altezza massima consentita; che il Comune di Milano aveva poi irrogato all’attrice la sanzione pecuniaria di euro 254.000,00; che le convenute, in qualità di progettista e direttore dei lavori, avevano realizzato opere abusive, apportando modifiche che avevano comportato il superamento dei limiti di altezza massima degli edifici; che il danno subìto dall’attrice era pari all’importo della sanzione pecuniaria versata.

Si è costituita M.C.C. contestando le domande di parte attrice e deducendo, in particolare: che la convenuta aveva adempiuto alle obbligazioni pattuite con diligenza; che le comunicazioni relative alla pratica edilizia era state inoltrate solo alla S.; che l’attrice avrebbe potuto contestare i provvedimenti assunti dal Comune di Milano in sede giudiziaria.

Ritualmente citata si è costituita, altresì, P.S. chiedendo, preliminarmente, l’au­torizzazione alla chiamata in causa di Generali Italia S.p.A. Nel merito ha evidenziato: che il progetto era stato redatto in vigenza di una normativa che ammetteva la deroga agli strumenti ed agli indici urbanistici; che le questioni affrontate dalla S. erano di speciale difficoltà, da valutarsi ai sensi dell’art. 2236 c.c.; che aveva adempiuto alle obbligazioni sulla stessa gravanti con diligenza; che la D.P. non aveva impugnato il provvedimento di annullamento del titolo edilizio e che, in tal modo, aveva interrotto il nesso di causa ai sensi dell’art. 1227 c.c.; che l’attrice, inoltre, non aveva impugnato neanche il provvedimento irrogativo della sanzione, che era stata determinata erroneamente dalla pubblica amministrazione; che la determinazione del danno risarcibile doveva tenere conto del vantaggio percepito dall’attrice (costituito dall’incremento di valore dell’immobile).

La terza chiamata Generali Italia S.p.A. si costituiva eccependo l’inoperatività della polizza assicurativa in ragione dei seguenti motivi: l’errore progettuale risaliva al 2004, mentre la validità della copertura assicurativa decorreva dal 7 ottobre 2005; al momento in cui la polizza era stata stipulata la convenuta era a conoscenza del­l’errore di progettazione, commesso nel 2004.

Acquisiti i documenti prodotti ed espletata una ctu, la causa – nelle more definitivamente assegnata a questo giudice – è stata trattenuta in decisione all’udienza, pre­via concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Le domande di parte attrice sono parzialmente fondate e possono trovare accoglimento nei limiti che seguono.

Alla fattispecie in esame deve trovare applicazione il costante orientamento della Suprema Corte, a mente del quale il creditore che agisca in giudizio per l’inadem­pimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, posto che incombe sul debitore convenuto l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento dell’obbligazione (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533; cfr. altresì Cass., Sez. III, 28 gennaio 2002, n. 982; Cass., Sez. Lav., 16 luglio 1999, n. 7553; Cass., Sez. I, 15 ottobre 1999, n. 11629; Cass., Sez. II, 5 dicembre 1994, n. 10446; Cass., Sez. II, 17 agosto 1990, n. 8336; Cass., Sez. II, 31 marzo 1987, n. 3099).

Orbene, passando al presente giudizio, spetta pertanto ai professionisti convenuti l’onere di fornire la prova dello specifico fatto posto a fondamento della propria pretesa creditoria, e cioè la corretta ed esatta esecuzione del contratto di prestazione d’o­pera intellettuale (corretta esecuzione contestata dall’attrice).

Non è contestato che l’attrice ha conferito alle convenute due incarichi professionali, l’uno (quello conferito alla C.C.) volto alla predisposizione di un progetto per il recupero del sottotetto e la ristrutturazione dell’immobile di sua proprietà e l’al­tro (quello conferito alla S.) avente ad oggetto la direzione dei lavori e la supervisione dell’esecuzione delle opere.

La difesa di parte attrice ha poi lamentato l’inadempimento delle convenute alle obbligazioni sulle stesse gravanti.

Orbene, dalla relazione di ctu – pienamente condivisa da questo giudice perché frutto di un attento ed analitico esame dei documenti e dello stato dei luoghi, depositata il 28 luglio 2005 a firma dell’arch. M.B. – è emerso che M.C.C. ha predisposto il progetto architettonico dell’immobile, mentre P.S. ha svolto le attività di preparazione della documentazione necessaria alla presentazione della prima Dichiarazione di Inizio Attività comprensiva dell’asseverazione (sottoscrizione della dichiarazione da professionista abilitato) necessari alla realizzazione del progetto architettonico disegnato da Arch. C. e della seconda DIA e successive integrazioni richieste dal Comune di Milano. (Omissis).

Dalla relazione di ctu emerge con certezza come le attività di progettazione, svolte dalla C.C., e la direzione dei lavori siano state viziate da errori, relativi all’al­tezza massima dell’immobile. Tale altezza erroneamente indicata sin nella prima DIA, 6210/2004, P.G. n. 812.418/2004, presentata sulla base delle indicazioni risultanti dal progetto elaborato dall’arch. C.C., è stata poi realizzata, in violazione delle disposizioni edilizie ed urbanistiche, nelle opere la cui direzione era affidata alla S.

Deve pertanto affermarsi come entrambe le convenute, la C.C. nelle attività relative alla progettazione, e la S. in quelle relative alla direzione dei lavori ed alla preparazione dei documenti necessari ai fini del completamento della pratica edilizia, abbiano adempiuto in modo inesatto alle obbligazioni sulle stesse gravanti.

Le convenute, inoltre, non sono riuscite a dimostrare di aver seguito correttamente ed esattamente le prestazioni alle quali erano tenute. (Omissis).

A tal proposito, e con specifico riferimento all’eccezione ex art. 2236 c.c., formulata dalla difesa della S., si osserva quanto segue.

Come affermato dalla Suprema Corte (con una giurisprudenza relativa al medico, ma con argomentazioni estensibili a diverse figure professionali, come quelle in esame), con orientamento pienamente condiviso da questo giudice, l’art. 2236 c.c. deve essere inteso come contemplante una regola di mera valutazione della condotta del debitore (v. Cass. 13 aprile 2007, n. 8826; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488).

All’art. 2236 c.c. non va assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione del­l’onere probatorio, giacché incombe in ogni caso al professionista dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze del caso concreto (v. Cass. 13 aprile 2007, n. 8826; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488).

Da ciò discende che in ogni caso di “insuccesso” incombe al professionista dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577; Cass. 13 aprile 2007, n. 8826; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488).

A tali considerazioni deve poi aggiungersi che la limitazione di responsabilità professionale ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., attiene e­sclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Infatti, anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza, dei quali il professionista risponde in ogni caso (fra le varie Cass. 1° marzo 2007, n. 4797; Cass. 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. 10 maggio 2000, n. 5945; Cass. 18 novembre 1997, n. 11440; Corte Cost. 22 novembre 1973, n. 166).

Ciò posto, nel caso in esame, si osserva che la conoscenza delle nozioni basilari relative alla disciplina urbanistica contribuisce a costituire il parametro di giudizio della diligenza (cfr. sul punto, Cass. 8349/2014). La cospicua produzione di leggi e circolari nel periodo in cui sono state redatte le pratiche edilizie (produzione che ha portato il CTU a ritenere che le prestazioni delle convenute fossero di speciale difficoltà) non può pertanto rilevare ai fini dell’affermazione della fattispecie di cui al­l’art. 2236 c.c., attenendo al parametro della diligenza e non a quello della perizia.

In conclusione, gli elementi sopra evidenziati consentono di ritenere che le convenute non abbiano fornito la prova di aver esattamente adempiuto alle obbligazioni sulle stesse gravanti.

L’accertato inesatto adempimento di parte delle obbligazioni gravanti sulle convenute comporta l’accoglimento della domanda formulata dall’attrice diretta ad ottenere il risarcimento dei danni subìti.

Con riferimento ai danni risarcibili, si osserva quanto segue.

Parte attrice ha allegato di aver subìto un danno corrispondente all’entità della somma versata al Comune di Milano, a titolo di sanzione ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 (cfr. doc. 14 e 15 di parte attrice), pari ad euro 254.000,00.

Le convenute hanno contestato la determinazione di tali danni, evidenziando in particolare che la D.P. avrebbe potuto impugnare il provvedimento di annullamento del titolo edilizio, emesso dal Comune di Milano il 9 febbraio 2010 e la sanzione e­messa ai sensi dell’art. 38, d.P.R. 380/2001, e dunque ridurre i danni subìti ex art. 1227 c.c.

Le censure svolte dalle convenute sono prive di pregio.

L’art. 1227 c.c. prevede due ipotesi distinte. Il comma 1 consente di ridurre l’en­tità del risarcimento se vi è stato un concorso colposo del creditore danneggiato nella causazione del danno. Il comma 2, invece, esclude proprio dal novero dei danni risarcibili quelli che lo stesso creditore danneggiato avrebbe potuto evitare con un comportamento diligente successivo all’evento dannoso.

Entrambi i commi considerano quindi la “diligenza” del danneggiato, solo che il primo valuta la condotta del danneggiato nella fase precedente il verificarsi della fattispecie dannosa, mentre il secondo riguarda il comportamento tenuto dallo stesso successivamente al verificarsi del fatto.

Il comma 2 si applica, quindi, al danneggiato estraneo alla produzione dell’even­to dannoso, ma che, dopo il suo prodursi, ha omesso di far uso della normale diligenza per circoscrivere l’incidenza dell’evento stesso (in tal senso Cass. n. 2655/1987 e Cass. n. 1306/1989).

A parere di questo giudice non sussistono i presupposti per l’applicazione delle due fattispecie considerate.

Con riferimento al comma 1, basti considerare come dall’istruttoria espletata non siano emersi elementi concreti che portino a ritenere che la D.P., impugnando il provvedimento di annullamento del titolo edilizio, avrebbe potuto evitare l’applica­zione della sanzione pecuniaria (applicata proprio in relazione all’avvenuta realizzazione di un edificio con altezza superiore a quella consentita).

Né a diverse conclusioni può giungersi con riferimento alla mancata impugnazione del provvedimento emesso ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001.

A tal proposito, infatti, basti ricordare che la mancata proposizione di un’azione giudiziaria non può configurare un concorso colposo del danneggiato nella causazio­ne del danno e giustificare una riduzione del risarcimento.

Ciò posto, l’entità del risarcimento deve essere ridotta in ragione dell’aumento di valore che l’immobile ha avuto in conseguenza dell’inadempimento delle convenute (ed in accoglimento dell’eccezione formulata dalla S.).

Nel caso in esame, infatti, ricorre la cosiddetta “compensatio lucri cum damno”, che la giurisprudenza colloca nell’ambito del rapporto di causalità, con la precisazione che trova applicazione solo quando sia il danno che il vantaggio sono conseguenza diretta ed immediata dello stesso fatto che abbia l’idoneità a produrli entrambi (cfr. Cass. n. 13401/2005).

Con riferimento alla giurisprudenza invocata dalla difesa di parte attrice (che deduce l’impossibilità di applicare il predetto principio alla fattispecie in esame), basti osservare che, a differenza della pronuncia delle Sezioni Unite (n. 28056/2008), richiamata nella memoria di replica dalla difesa della D.P., nel caso in esame il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale subìto dall’attrice è uguale a quello che le ha procurato un vantaggio.

Ciò posto, nel caso in esame, dalla relazione di ctu è emerso che l’immobile per cui è causa, per effetto dell’inesatto adempimento alle obbligazioni gravanti sulle convenute – segnatamente per effetto della nuova porzione di sottotetto abitabile – ha acquistato un maggior valore, pari ad euro 163.271,00.

Tale vantaggio va detratto dal risarcimento, risolvendosi altrimenti in una indebita locupletazione.

In conclusione, il credito risarcitorio vantato dall’attrice nei confronti delle convenute è pari ad euro 90.729,00 al valore attuale.

Va, altresì, riconosciuto il danno derivante dal mancato tempestivo godimento del­l’equivalente pecuniario che, in difetto di diversi elementi probatori, si ritiene di compensare adottando quale parametro quello degli interessi legali da calcolarsi, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Sez. Un. n. 1712/ 1995), sulla somma via via rivalutata dalla produzione dell’evento di danno sino a oggi, tempo della liquidazione. Così, tenuto conto di questo criterio – previa devalutazione alla data del fatto della somma espressa in moneta attuale – vanno aggiunti alla somma rivalutata annualmente gli interessi compensativi nella misura legale dall’evento fino alla data odierna. Da oggi, giorno della liquidazione, all’effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma sopra liquidata complessivamente.

P.S. ha chiesto la condanna delle Generali Assicurazioni S.p.A. al pagamento di tutto quanto la stessa sarà tenuta a pagare all’attrice in dipendenza della presenza sentenza.

Le domande della convenuta nei confronti della terza chiamata meritano accoglimento, atteso che le doglianze spiegate dalla difesa delle Generali sono infondate.

In primo luogo, la difesa della terza chiamata ha eccepito l’inoperatività della polizza assicurativa in ragione delle previsioni contenute all’art. 7 (“inizio e termine dell’assicurazione”) delle Condizioni Generali di Contratto.

L’art. 7 dispone che “l’assicurazione è operante per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all’Assicurato durante il periodo di efficacia dell’Assi­curazione, sempreché originati da errori professionali commessi durante il medesimo periodo, ovvero limitatamente all’attività di progettazione, anche precedentemente alla sua data di decorrenza a condizione che l’opera per la quale l’Assicurato ha eseguito la sua prestazione non sia stata ancora iniziata, ...”.

Gli elementi contenuti nel citato art. 7 valgono a definire la polizza in oggetto come contratto di assicurazione impostato e connotato integralmente dal regime “claim’s made” o “a richiesta fatta”, in cui oggetto dell’assicurazione è proprio la richiesta risarcitoria avanzata dal terzo garantito, determinata da un evento dannoso ascrivibile a responsabilità dell’assicurato.

Trattasi, dunque, di contratto assicurativo in cui l’obbligazione di garanzia non sorge con il fatto generatore di responsabilità, ma con la richiesta risarcitoria del terzo.

La polizza in esame, “a richiesta fatta”, certamente diverge dallo schema generale del contratto assicurativo della responsabilità civile, così come definito all’art. 1917, comma 1, c.c. in cui il sinistro coperto dalla garanzia assicurativa è il “fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione” e di cui l’assicurato deve rispondere civilmente.

Tali clausole possono dividersi in due grandi categorie: a) clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello in esame per quanto riguarda l’attività di progettazione, alle condotte poste in essere anteriormente; b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.

In merito a tali clausole non può prescindersi dal recente arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Nella pronuncia n. 9140/2016 la Suprema Corte ha affermato: che il patto claim’s made è volto a stabilire quali siano, rispetto all’ar­chetipo fissato dall’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità; che “nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati pe­riodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claim’s made mista o impura) non è vessatoria”; che tale clausola, “in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al d.lgs. n. 206/2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.

Le Sezioni Unite hanno dunque definitivamente chiarito che il contratto di assicurazione con clausola claim’s made è un contratto tipico, caratterizzato dalla presenza di un patto atipico.

Ciò posto, occorre compiere uno scrutinio di validità sotto il profilo di meritevolezza di tutela della clausola (giudizio che le stesse Sezioni Unite, ricordando l’“ap­prodo pacifico della teoria generale del contratto”, ritengono possibile compiere anche non sull’intero contratto, ma sulla singola clausola) che consente una deroga al regime legale previsto dalla disciplina del contratto di assicurazione.

In via generale, appare opportuno ricordare che, come da tempo chiarito dalla dottrina, l’autonomia negoziale non può essere disancorata dalla natura degli interessi sui quali una data disposizione è destinata ad incidere. E poiché ogni interesse è correlabile ad un valore, attraverso l’analisi degli interessi si dovrà individuare quali fra essi estrinsecano valori che hanno nella Carta costituzionale il loro riconoscimento e la loro tutela.

Il controllo di meritevolezza degli interessi deve essere condotto, per quel che rileva in questa sede, alla stregua dell’art. 2 Cost., il quale tutela i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà.

Quest’ultima, come efficacemente ricordato dalla Suprema Corte, costituisce “su­premo principio costituzionale, esprime cooperazione e si caratterizza per una valenza etica, identificandosi con un ‘ideale di partecipazione piena all’altrui vicenda’ che non può non assumere aspetti di reciprocità. La persona è inseparabile dalla solidarietà che non può essere pertanto limitata alla sfera dei rapporti economici dato che il principio solidaristico, oltre a svolgere una funzione emancipatoria ed a garantire l’adempimento dei doveri del singolo verso la comunità, assume rilevanza anche nell’ambito dei rapporti interindividuali. In altre parole, il principio solidaristico non è più soltanto caratterizzato in senso economico, rivolto a scopi nazionalistici, di efficientismo del sistema o di aumento della produttività, ma ha fini ad un tempo politici, economici, sociali” (Cass. n. 14343/2009).

Alla stregua di queste premesse, deve rilevarsi che il contenuto dell’art. 7 del contratto concluso tra la S. e le Generali – limitando la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervenga sia il sinistro che la richiesta di risarcimento – appare del tutto incompatibile proprio con lo schema della responsabilità professionale come quella in esame, nella quale, in ragione delle caratteristiche del­l’opera intellettuale prestata e della inevitabile discrasia temporale tra l’esecuzione della prestazione e la manifestazione del danno, è pressoché impossibile che in uno stesso anno si verifichi sia la condotta (o l’omissione) del professionista che la richie­sta risarcitoria da parte del terzo danneggiato.

A tali considerazioni deve poi aggiungersi che la predetta incompatibilità spiega effetti anche alla luce dell’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività (cfr. art. 3, comma 5, d.l. n. 138/2011, convertito con la l. n. 148/2011, che, nell’elencare i princìpi ai quali devono ispirarsi le riforme degli ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto, ha previsto, alla lettera e), l’obbligo per tutti di stipulare “idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio del­l’attività professionale”, nonché di rendere noti al cliente, a momento dell’assunzio­ne dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e il relativo massimale).

In conclusione, ritiene questo giudice che una clausola come quella contenuta nel citato art. 7 – caratterizzata, peraltro, da una spiccata asimmetria informativa nella quale il contraente non predisponente (sebbene professionista, come nel caso di specie) non è in possesso di tutte le informazioni sui complicati meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile, delle quali dispone, invece, la società di assicurazione – anche a fronte dell’entità del premio pagato dall’assicu­rato (pari, nel caso in esame ad euro 475,00 annui) non sia meritevole di tutela e debba, pertanto, essere dichiarata nulla.

Trattandosi di clausola che deroga in senso meno favorevole all’assicurato, la stessa, ai sensi dell’art. 1932, comma 2, c.c. è sostituita di diritto dalla corrispondente disposizione di legge (costituita dall’art. 1917, comma 1, c.c.).

In conclusione, ritiene questo Tribunale che l’inefficacia della clausola relativa alla validità della garanzia debba essere limitata a quella parte della pattuizione che, invece di coprire i rischi verificatesi nei dieci anni precedenti alla stipulazione della polizza, limita la garanzia ai rischi nel descritto limitato periodo temporale. Tale inefficacia non si estende a tutta la clausola relativa alla validità della garanzia che resta efficace nella parte in cui delimita l’oggetto del contratto e prevede che l’assi­curazione vale per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’Assi­curato nel corso del periodo di validità dell’assicurazione (fino alla maturazione dei termini di prescrizione decennale, ancora non compiuti nel caso in esame).

Da tali considerazioni deriva che, avendo la S. denunciato il sinistro il 13 novem­bre 2012, in periodo di vigenza di polizza (decorrente dal 7 ottobre 2008), dovendosi sostituire la clausola dichiarata nulla con la disposizione di legge corrispondente, prevista dall’art. 1917, comma 1, c.c. – e per un fatto relativo ad un’attività di progettazione svolta nel 2004 – la garanzia deve ritenersi operante. (Omissis).