Il contributo analizza i profili strutturali e funzionali del contratto di mantenimento, tenendo conto degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che si sono, di volta in volta, avvicendati in materia. Particolare attenzione viene dedicata alla valutazione dell’alea del vitalizio di mantenimento e della rendita vitalizia rispetto alla quale le sentenze in commento sembrano introdurre nuovi spunti interpretativi.
The contribution analyzes the structural and functional profiles of the maintenance contract, taking into account the jurisprudential and doctrinal orientations that have, from time to time, alternated on the subject. Particular attention is devoted to the assessment of the alea of the maintenance annuity and of the life annuity with respect to which the judgments under comment seems to introduce new interpretative insights.
1. Il fatto. “Cass. 22 novembre 2023, n. 32439” - 2. Il fatto. “Cass. 26 marzo 2024, n. 8116” - 3. La rendita vitalizia quale “tipo” normativo dei contratti a causa “previdenziale” - 4. Il contratto di mantenimento: questioni qualificatorie e disciplina applicabile - 5. Il contratto di mantenimento quale “sottospecie” della rendita vitalizia: precisazioni sull’alea - NOTE
Con la sentenza n. 32439 del 22 novembre 2023 la Suprema Corte torna a pronunciarsi sul c.d. contratto di mantenimento, dando seguito, per molti versi, agli orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia, sebbene alcune argomentazioni, contenute nell’iter motivazionale, sembrerebbero aprire a nuovi spazi di riflessione dal punto di vista sistematico. Prima di soffermaci su tali aspetti, appare opportuno ricostruire, seppur brevemente, la fattispecie concreta giunta al vaglio di legittimità. La vicenda trae origine da un contratto di mantenimento stipulato tra una madre (in qualità di vitaliziata) e un figlio (quale vitaliziante), in virtù del quale quest’ultimo si obbligava, a fronte della cessione a suo favore di alcuni immobili di proprietà materna del valore complessivo di circa 238.000,00 euro, a mantenerla ed assisterla “vita natural durante”. Una volta deceduta la vitaliziata il negozio in questione veniva impugnato dagli altri eredi della de cuius, i quali sostenevano che lo stesso dovesse dichiararsi alternativamente nullo, inefficace, simulato o, tutt’al più, risolubile per colpa del vitaliziante, con conseguente inclusione nella massa ereditaria dei relativi beni immobiliari. A sostegno di siffatta tesi gli attori deducevano in giudizio come, in realtà, sotto le false righe della stipulazione di un contratto di mantenimento o vitalizio assistenziale si celasse un intento liberale da parte della vitaliziata a favore del figlio, posto che nessuna incertezza o alea sussisteva tra le rispettive attribuzioni patrimoniali (in capo alle parti) sin dal momento della conclusione del contratto. Più precisamente, veniva argomentato come il vitaliziante (figlio), a fronte del cespite patrimoniale ricevuto, non avesse, in concreto, svolto alcuna opera assistenziale e materiale nei confronti della vitaliziata, la quale era stata assistita da una propria badante dalla stessa retribuita, così come aveva provveduto da sé a pagare i pasti e le utenze domestiche. Ne discende, secondo gli attori, come dalla comparazione tra il valore degli obblighi spettanti al figlio e quello degli immobili trasferitigli emergesse una sproporzione a tutto favore del solo vitaliziante. Siffatte doglianze sono state, tuttavia, disattese sia in primo grado, sia dalla Corte d’appello di Genova, che si è pronunciata sul punto sulla base di un duplice [continua ..]
La seconda pronuncia in commento riguarda, invece, un contratto tipico di rendita vitalizia. Più precisamente, il Tribunale di La Spezia con sentenza n. 195 del 2009 condannava DD (in qualità di vitaliziante) a versare a favore di AA (quale beneficiaria) il 25 per cento degli utili della farmacia CC, basandosi tanto sulla validità del contratto in questione stipulato tra AA e BB nel 1994 – allorché quest’ultimo era unico titolare della farmacia –, quanto sull’efficacia dell’accollo di detto onere in capo alla farmacia CC, a partire dal momento in cui BB si era associato a DD e avevano costituito una società in nome collettivo. Sotto il profilo processuale, poi, il collegio giudicante rileva che sulla validità del vitalizio in questione si era formato un giudicato esterno con sentenza n. 655/2003 emessa dal medesimo Tribunale di La Spezia. Dopo ben tre successivi giudizi, la Corte d’appello di Genova capovolge, tuttavia, l’esito di tali pronunce dichiarando nullo il contratto di rendita vitalizia «per insussistenza dell’equivalenza di rischio» ed escludendo, altresì, che possa farsi valere l’efficacia (esterna) della sentenza n. 655/2003. La beneficiaria, a questo punto, ricorre in Cassazione per sostenere la validità della rendita vitalizia, fondando le relative eccezioni (sostanzialmente) sull’efficacia riflessa del giudicato esterno della sentenza del Tribunale di La Spezia n. 655/2003 e sostenendo, altresì, che l’equivalenza del rischio non poteva essere determinabile, posto che le prestazioni del vitaliziante «essendo commisurate ai risultati d’esercizio della farmacia, erano per definizione indeterminabili ed incerte al pari dei risultati di una qualunque altra attività imprenditoriale». La Suprema Corte di cassazione dopo un lungo iter motivazionale – (quasi) interamente dedicato a dichiarare infondate le eccezioni processuali relative alla possibilità di far valere l’efficacia riflessa del giudicato esterno della sentenza n. 655/2003 – conferma la nullità della rendita vitalizia in esame per mancanza di alea. In particolare, i Giudici della Suprema Corte sottolineano come l’alea sia un elemento essenziale del contratto di rendita vitalizia e come la stessa vada interpretata in termini di incertezza del risultato economico [continua ..]
Le due pronunce in commento offrono non pochi spunti di riflessione in merito ai contratti a causa previdenziale. In particolare, dall’esame dell’iter motivazionale della sentenza n. 32439/2023 è emerso come per la Cassazione sia stato necessario, ai fini della decisione, ricostruire i caratteri essenziali del contratto di mantenimento e delinearne i rapporti con la fattispecie tipica della rendita vitalizia, da cui, comunque, siffatto congegno negoziale trae le sue origini. Il tutto a dimostrazione di come il negozio in esame sia in continua evoluzione quanto a contenuto e funzione e, conseguentemente, siano incerti, sia i confini di sussunzione all’interno del tipo legale (della rendita vitalizia), sia la disciplina ad esso applicabile. Orbene, nel tentativo di procedere con ordine nell’affrontare tali questioni, appare, innanzitutto, opportuno sottolineare come in realtà il codice civile del 1942 non offra una definizione espressa di rendita vitalizia o vitalizio oneroso, ma la stessa sia ricavabile in via interpretativa dalle disposizioni che ne dettano i modi di costituzione (art. 1872 c.c.), gli elementi essenziali, nonché dalla nozione generale di rendita perpetua (art. 1861 c.c.) [1]. Ora, e pur sempre nei limiti di quello che è possibile ricostruire in questa sede, dal combinato disposto delle norme richiamate si ricava come la rendita vitalizia si caratterizzi in primo luogo per i modi di costituzione a titolo oneroso [2] individuati dal codice civile nell’alienazione di un bene mobile o immobile o nella cessione di un capitale dal vitaliziato (creditore) al vitaliziante (debitore), a seguito della quale sorge un rapporto obbligatorio (di durata), alla cui stregua il debitore (vitaliziante) si obbliga a corrispondere al creditore (vitaliziato) una prestazione periodica, in danaro o altre cose fungibili, per tutta la durata della vita del vitaliziato o di altra persona, o anche congiuntamente [3]. L’esigenza di evitare abusi a danno della parte debole del rapporto contrattuale ha, poi, attribuito a siffatto atto negoziale natura aleatoria: la stessa è stata tradizionalmente individuata, da dottrina e giurisprudenza, nell’incertezza che caratterizza il sinallagma contrattuale o, comunque, il rapporto di corrispettività tra la prestazione cui è obbligato il vitaliziante e il dato incerto e obiettivo della durata della vita [continua ..]
Salvo le precisazioni che seguiranno al riguardo, ciò che preme sottolineare in questa sede è che l’allargamento delle caratteristiche del “tipo” o il suo sconfinamento si è avuto soprattutto sotto un altro versante. Le mutevoli esigenze legate all’età senile e il perdurante bisogno delle persone prive di autonomia di ricevere ogni tipo di cura e assistenza fino alla durata della loro vita hanno condotto l’autonomia privata a mutare il contenuto della fattispecie negoziale in questione, accentuandone la relativa funzione previdenziale [9]. Più precisamente e fermo restando l’effetto reale del trasferimento dell’immobile o di un cespite patrimoniale dal vitaliziato al vitaliziante, ciò che è stata trasformata e arricchita di contenuto e funzione è la prestazione spettante a quest’ultimo. Alla luce di siffatto nuovo modello il vitaliziante non sarebbe tenuto più a un dare denaro o cose fungibili, ma a un facere, consistente nel fornire mantenimento, assistenza o a soddisfare ogni bisogno anche di natura morale e spirituale del vitaliziato. Ed è proprio questo particolare vitalizio, comunemente definito come contratto di mantenimento [10] e considerato un unicum con il vitalizio alimentare (insieme ad altri vitalizi affermatisi nella prassi come quello “assistenziale”), ad essere oggetto della prima pronuncia in commento (Cass. n. 32439/2023); tale fattispecie negoziale viene qualificata come “atipica” e considerata meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. [11]. Ora, siffatto inquadramento se in alcuni passaggi sembrerebbe essere avallato anche dalla sentenza della Cassazione n. 32439/2023 in esame, per contro, appare essere smentito là dove si qualifica la fattispecie come “sottospecie della rendita vitalizia”, attraverso argomentazioni che lasciano spazio a nuove interpretazioni in materia. Sul punto, però, occorre procedere con ordine. Nella prima parte dell’iter motivazionale, infatti, la Cassazione sembra aderire a quell’orientamento giurisprudenziale, consolidatosi (almeno) intorno agli anni ’80, che qualifica il contratto di mantenimento (insieme a quello alimentare e assistenziale) nell’area dell’atipicità sulla base di tre principali ordini di considerazioni [12]: in primo [continua ..]
Il contenuto della prestazione di facere spettante al vitaliziante nel contratto di mantenimento costituisce il presupposto logico-giuridico da cui trae fondamento l’affermazione della giurisprudenza maggioritaria alla cui stregua il negozio in questione sarebbe caratterizzato da un’alea più accentuata rispetto a quella immanente alla rendita vitalizia. Tale accentuazione, come in parte anticipato, si tramuterebbe, nella sostanza, in una “doppia alea”, concernente non solo il rischio collegato all’incerta durata della vita del vitaliziato, ma anche a quella relativa ai suoi mutevoli e imprevedibili bisogni esistenziali: il tutto renderebbe la prestazione del vitaliziante difficilmente quantificabile (con esattezza) dal punto di vista (anche) economico, rafforzandosi, per tale via, la tesi sull’atipicità dell’operazione negoziale in esame [27]. Si tratta, a ben vedere, di un’impostazione che, però, suscita perplessità sia dal punto di vista più generale della tecnica di valutazione del rischio – se letta alla luce dei principi sistematici vigenti in materia –, sia con precipuo riguardo al contratto in oggetto. Sotto il primo profilo, non si deve dimenticare, infatti, come nei contratti aleatori la valutazione del “rischio” sia una caratteristica che è immanente all’atto e non certo allo svolgimento del “rapporto”. In altri termini, come sottolinea la stessa giurisprudenza, lo squilibrio (o l’equilibrio) tra le reciproche attribuzioni patrimoniali, rispetto al verificarsi dell’evento incerto dedotto in contratto (quale proiezione funzionale dell’atto), deve sussistere e deve essere valutato sin dal momento della conclusione del negozio, così come sancito dall’art. 1895 c.c. alla cui stregua «il contratto di assicurazione è nullo se il rischio non esiste o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto». Ne consegue che l’alea sia un criterio di determinazione delle prestazioni nella loro “fisicità strutturale”, nel senso che le stesse devono dar conto o palesare “l’incertezza” esistente nel contratto [28]. Il verificarsi o meno dell’evento incerto sarà, poi, il fattore che determinerà, in maniera speculare, il rapporto tra vantaggi o perdite patrimoniali tra i contraenti, oppure [continua ..]