Lo scritto affronta il tema della causalità nel danno conseguente alla lesione del rapporto parentale e consistente nelle conseguenze pregiudizievoli, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, che derivano dalla perdita o dalla compromissione del rapporto familiare o affettivo, per effetto della morte o della menomazione dell’integrità psicofisica del congiunto.
Dopo aver ripercorso i momenti più significativi della riflessione dottrinale e giurisprudenziale che ha portato all’elaborazione della nozione di illecito plurioffensivo, il contributo si sofferma sull’accertamento dell’eziologia dei danni alle vittime secondarie, la quale risulta complicata dalla struttura “a cascata” o “a catena” della sequenza causale, in cui il danno-evento che attinge la vittima c.d. secondaria postula necessariamente l’offesa dell’interesse di un soggetto diverso, la vittima primaria, e, quindi, non viene a collocarsi in posizione di prossimità rispetto al fatto dannoso.
L’articolo analizza, infine, i problemi legati alla prova del danno parentale e, in particolare, il diverso modo di operare dell’onere probatorio nei vincoli familiari, giuridici o di fatto.
Articoli Correlati: danni subiti da congiunto del danneggiato principale (danno parentale) - illecito plurioffensivo - nesso di causalità - accertamento - oneri assertori e probatori
1. I danni conseguenti alla lesione del rapporto parentale - 2. Particolarità dell’eziologia del danno parentale. Dalla teoria del danno riflesso o “da rimbalzo” alla nozione di illecito plurioffensivo - 3. L’evoluzione della giurisprudenza e il superamento della nozione di danno riflesso o “da rimbalzo” - 4. L’accertamento del nesso causale nell’illecito plurioffensivo. “Scomposizione” della sequenza causale e valutazione probabilistica - 5. La prova del nesso di causalità. Le differenze tra i vincoli giuridici e i rapporti affettivi di fatto - 6. Il danno non patrimoniale da perdita del nonno o del nipote ex filio, del figlio del partner, del coniuge separato - 7. Il danno biologico conseguente alla morte o alla grave menomazione del congiunto - 8. Il pregiudizio patrimoniale da perdita del congiunto quale danno-conseguenza - 9. La prova del nesso causale nel danno patrimoniale da perdita del congiunto - NOTE
Il fatto illecito o l’inadempimento che cagioni la morte di una persona o ne menomi l’integrità psicofisica non lede necessariamente i soli interessi della vittima principale, potendo ripercuotersi sulla sfera personale e patrimoniale di altri soggetti ad essa legati da un rapporto giuridicamente rilevante, il quale può coincidere con un vincolo parentale, con una relazione affettiva ad exemplum familiae o, più semplicemente, con un rapporto obbligatorio [1]. I soggetti maggiormente esposti alle conseguenze pregiudizievoli della lesione subita dalla vittima, per così dire, “diretta” o “iniziale” o “primaria” [2] vanno, di norma, identificati con i componenti del suo nucleo familiare ovvero con le persone alla stessa legate da un vincolo affettivo qualificato, i quali, oltre alla riduzione o cessazione delle elargizioni economiche eventualmente ricevute dal congiunto anteriormente al sinistro, possono subire uno sconvolgimento della propria esistenza, generato dal fatto di non poter continuare a vivere il rapporto che intercorreva con la vittima, e sofferenze morali, talora di intensità tale da evolvere in vere e proprie patologie e, quindi, in un danno all’integrità psicofisica[3]. Il riconoscimento dell’autonoma risarcibilità di tali pregiudizi rappresenta l’approdo di un lungo percorso ermeneutico che, da un’originaria posizione di chiusura, ha condotto gli interpreti all’elaborazione di un sistema di tutela ancorato all’ingiustizia del danno, ovvero all’individuazione, in capo alle stesse vittime c.d. secondarie, di autonomi interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico direttamente attinti dal fatto illecito o dall’inadempimento imputabile al terzo. Si tratta del danno da lesione del rapporto parentale, da identificarsi con le conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale – rappresentate dalla sofferenza interiore e dalla modificazione peggiorativa delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato [4] – derivanti dalla perdita o dalla compromissione del rapporto familiare o affettivo, per effetto della morte o della compromissione dell’integrità psicofisica del congiunto. La risarcibilità del danno parentale trova, dunque, fondamento nella lesione dell’interesse [continua ..]
Storicamente l’interesse, sia teorico che pratico, per i danni subiti dai congiunti della vittima c.d. primaria è collegato al profilo della causalità, essendo l’eziologia di tali pregiudizi caratterizzata dalla particolarità per la quale un determinato evento dannoso viene a ripercuotersi nella sfera giuridica di un soggetto diverso rispetto a quello che in via diretta subisce la lesione [6]. Valorizzando tale peculiare fenomenologia, la dottrina e la giurisprudenza più risalenti hanno elaborato la nozione di danni riflessi o “da rimbalzo”, nel senso, appunto, di pregiudizi subiti da persone diverse dalla vittima iniziale dell’illecito [7]. I giuristi francesi, ai quali si deve l’ideazione della categoria, allo scopo di arginare la proliferazione delle domande risarcitorie e di individuare una linea di demarcazione tra la cerchia dei soggetti potenzialmente legittimati a chiedere il risarcimento, hanno individuato il presupposto indefettibile per accedere alla tutela risarcitoria nella “lésion d’un intéret légitime” e, dunque, nell’esistenza di un “lien de droit” tra la vittima iniziale e colui che chiede il risarcimento del danno riflesso [8]. Per converso, la dottrina [9] e la giurisprudenza [10] italiane per lungo tempo hanno escluso radicalmente la risarcibilità del danno riflesso o “da rimbalzo” [11] proprio in ragione del suo carattere indiretto e mediato. I fautori di tale approccio interpretativo, riconducendo la fattispecie nell’alveo della causalità giuridica [12], configuravano, invero, il danno subito dalla vittima secondaria come una conseguenza ulteriore di un pregiudizio prodottosi nella sfera di un soggetto diverso (la vittima c.d. primaria) [13] e, in quanto tale, inidonea a soddisfare il requisito della consequenzialità immediata e diretta imposto dall’art. 1223 c.c. Le ricostruzioni più recenti [14], pur confermando l’assunto dell’inconfigurabilità di una tutela risarcitoria del terzo, per essere il diritto al risarcimento del danno in titolarità del solo soggetto che sia portatore di un proprio interesse giuridicamente tutelato, hanno distinto da tale ipotesi quella in cui il fatto dannoso si caratterizza per una propria attitudine ad incidere direttamente su una pluralità di [continua ..]
La disputa sull’estensione della tutela risarcitoria dei congiunti della vittima dell’illecito ha riguardato principalmente l’ipotesi del danno subito dai familiari in conseguenza di gravi lesioni occorse alla vittima primaria, rispetto alla quale tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza di legittimità hanno mantenuto fino agli anni ’80 del secolo scorso una tendenza restrittiva. Gli argomenti utilizzati da tale impostazione al fine di escludere – con l’obiettivo di arginare un eccessivo ampliamento dei confini della responsabilità civile – la risarcibilità del danno riflesso, vertevano essenzialmente: 1) sulla lontananza, rispetto al fatto causativo di danno, delle conseguenze dannose patite dai congiunti della vittima, dal momento che solo il pregiudizio arrecato a quest’ultima può considerarsi una conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso; 2) sull’idoneità del risarcimento e della conseguente soddisfazione della vittima primaria a recare conforto anche ai congiunti; 3) sulla finalità repressiva e specialpreventiva della responsabilità civile e sulla funzione sanzionatoria della tutela ex art. 2059 c.c. la quale, analogamente a quanto accade per le norme penali, ne impedisce la plurima applicazione per il medesimo fatto (ne bis in idem sostanziale). Alla luce di tale interpretazione, alle vittime secondarie non veniva riconosciuto né il danno morale, né il danno biologico, trattandosi, appunto, di pregiudizi indiretti o riflessi o da rimbalzo, cagionati, cioè, per interposta persona e perciò irrilevanti, avuto riguardo al dettato dell’art. 1223 c.c., per il quale sono risarcibili le sole conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento o dell’illecito. La rigida alternativa tra danno biologico e danno morale non lasciava, infine, spazio all’ulteriore tipologia di pregiudizio, rappresentato dallo sconvolgimento della vita familiare, subito dal familiare in via immediata in conseguenza del fatto dannoso. La distinta considerazione dell’ipotesi di uccisione rispetto a quella delle lesioni personali del congiunto risale agli anni ’70 del secolo scorso [19]. Emblematica, al riguardo, è la sentenza del 21 maggio 1976, n. 1845, con la quale la Corte di Cassazione confermò espressamente il pieno sostegno all’assunto della [continua ..]
L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, favorita dagli spunti ricostruttivi offerti dalla più recente riflessione dottrinale, ha, quindi, dimostrato la fallacia della nozione di danno riflesso o “da rimbalzo”, evidenziando come la genesi dei pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dai congiunti della vittima non si configuri come propagazione alle vittime secondarie delle conseguenze dell’illecito e, dunque, del primo e unico evento lesivo, ma, piuttosto, come causazione di una pluralità di eventi dannosi coincidenti con la lesione di altrettanti interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico in titolarità di diversi soggetti. Come osservato in dottrina, “l’illecito plurioffensivo è il risultato di un’indagine condotta in punto di rapporto di causalità: non è una prima lesione a riflettersi sulla persona di altri, ma un unico illecito che colpisce più soggetti” [33]. Non viene, dunque, in rilevo un problema di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., ma di ingiustizia del danno: le vittime secondarie in tanto possono essere tutelate in quanto subiscono un’ingiustificata lesione di un interesse proprio, meritevole di autonoma considerazione giuridica, dalla quale derivi un danno-conseguenza patrimoniale o non patrimoniale [34]. Deve, così, ritenersi parimenti superata l’impostazione fatta propria da quelle pronunce di legittimità che, pur avendo riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale sul presupposto dell’autonomia dell’interesse leso, hanno, comunque, qualificato tale pregiudizio in termini di danno mediato e, tuttavia, risarcibile secondo il criterio della regolarità causale [35]. Al contrario, l’accertamento dei danni alle vittime c.d. secondarie deve essere condotto con le “lenti della causalità di fatto” [36], con la precisazione che tale verifica risulta complicata dalla particolarità dell’eziologia del processo dannoso data dalla struttura “a cascata” o “a catena” della sequenza causale, nella quale la lesione dell’interesse della vittima c.d. secondaria postula necessariamente l’offesa dell’interesse di un soggetto diverso, la vittima c.d. primaria, così che il danno-evento che [continua ..]
Si è già evidenziato come le questioni implicate dall’accertamento della causalità materiale si riducano significativamente ove venga in rilievo l’ipotesi della morte o della grave lesione dell’integrità psicofisica del congiunto, rispetto alla quale la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta dell’agente e il danno evento rappresentato dalla lesione del rapporto parentale si trae dallo stesso fatto dell’uccisione (o della grave lesione personale) della vittima primaria e dalla sussistenza di un vincolo parentale o di un rapporto affettivo di fatto ad exemplum familiae tra questa e la vittima secondaria. Più complesso è, invece, l’accertamento del nesso di causalità giuridica intercorrente tra la lesione della relazione parentale e i danni patrimoniali e non patrimoniali ad essa conseguenti, potendo ritenersi risarcibili soltanto le ripercussioni patrimoniali e non patrimoniali effettivamente verificatesi nella sfera giuridica della vittima secondaria. Incombe, infatti, su quest’ultima l’onere di allegare e provare tanto l’esistenza del rapporto parentale o di affezione qualificata, quanto il suo concreto dispiegarsi al momento dell’evento lesivo. Per quanto riguarda la prova del vincolo giuridico di parentela, la parte interessata deve limitarsi a documentarne l’esistenza, spettando al giudice la valutazione sub specie iuris in virtù del principio iura novit curia. Diverso è, invece, il caso in cui venga dedotta la lesione di un rapporto interpersonale di fatto, dovendo verificarsi se la relazione sia riconducibile ad una situazione giuridica soggettiva la cui lesione valga a giustificare il risarcimento ai sensi dell’art. 2059 c.c. e, quindi, a fondare l’ingiustizia “tipica” del danno non patrimoniale [58]. Per tali ragioni la dottrina [59], muovendo dal presupposto che la giuridificazione di un vincolo affettivo consegue al fatto che il correlato rapporto risulti disciplinato, a qualsiasi fine, dalla legge, ha effettuato la seguente ricognizione delle relazioni interpersonali giuridicamente rilevanti: a) i rapporti tra parenti fino al sesto grado, dal momento che, ai sensi dell’art. 77 c.c., la legge non riconosce il vincolo di parentela oltre tale limite (se ne ha conferma dallo stesso art. 572, comma 2, c.c. a mente del quale la successione tra [continua ..]
Importanti precisazioni sulla risarcibilità del danno parentale provengono dalla giurisprudenza in materia di pregiudizio non patrimoniale da perdita del nonno o del nipote ex filio. Le pronunce più recenti si sono discostate dall’orientamento restrittivo inaugurato dalla sentenza della Terza Sezione con la sentenza n. 4253/2012, la quale, nell’ottica di soddisfare l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari, aveva sostenuto che il fatto illecito, costituito dall’uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare, mentre per i soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Cost. Secondo l’orientamento attualmente prevalente, il rapporto tra nonno e nipote non deve essere necessariamente ancorato alla convivenza per essere giuridicamente qualificato e, quindi, rilevante. In questo senso, alcune pronunce hanno evidenziato che, premesso che la tutela risarcitoria deve essere riconosciuta in caso di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona, tra i quali vanno annoverati i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., non può essere limitata all’ambito ristretto della sola c.d. “famiglia nucleare”, incentrata su coniuge, genitori e figli, e non può ritenersi che le disposizioni civilistiche che specificamente riguardano il rapporto tra i nonni e i nipoti non siano tali da poter fondare [continua ..]
Dall’uccisione o dalla grave lesione dell’integrità psicofisica di un prossimo congiunto può derivare, oltre al danno consistente nella perdita del rapporto parentale e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno all’integrità psicofisica [75]. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che il danno alla salute del superstite, purché sia medicalmente accertato, è un pregiudizio con propria oggettiva evidenza [76] e va, pertanto, risarcito ove sia adeguatamente provato il nesso causale [77] tra il fatto illecito e la menomazione dello stato di salute della vittima secondaria [78]. In particolare, è risarcibile il danno alla salute a favore degli stretti congiunti della persona deceduta per effetto dell’illecita condotta altrui, allorché le sofferenze causate a costoro dalla perdita abbiano determinato una lesione dell’integrità psicofisica degli stessi [79]. Tale risarcimento può essere accordato solo se sia fornita la prova che il decesso ha inciso negativamente sulla salute dei congiunti, determinando una qualsiasi apprezzabile, permanente patologia e soltanto la scienza medica è in grado di offrire al giudice “la certezza che una determinata patologia non solo esista, ma sia altresì in rapporto causale col trauma patito per la morte del congiunto; sia, in altri termini, conseguenza delle sofferenze indotte dall’evento luttuoso” [80]. Nella fattispecie del danno biologico “riflesso” la condotta illecita plurioffensiva del terzo lede, oltre al diritto alla vita o alla salute della vittima primaria, anche il diritto alla salute della vittima secondaria con la conseguenza che il legame eziologico che deve sussistere affinché tale ultimo danno-evento possa ritenersi imputabile all’autore dell’illecito è un nesso di causalità materiale. Come si è già evidenziato, l’accertamento di tale rapporto causale risulta complicato dal fatto che il danno-evento è cagionato dalla condotta del terzo “per il tramite” della lesione di un diritto della vittima primaria. Nelle non numerosissime pronunce in materia, la giurisprudenza di legittimità ha affrontato e risolto le problematiche connesse alla struttura complessa della sequenza causale che caratterizza la fattispecie in esame [continua ..]
La giurisprudenza di legittimità da tempo ammette il risarcimento dei danni patrimoniali subiti dai superstiti in conseguenza del prematuro decesso del congiunto causato dal fatto illecito o dall’inadempimento imputabili al terzo. Infatti, la scomparsa del congiunto, proiettata nel futuro, determina una presumibile perdita economica per i superstiti identificabile nelle risorse reddituali che il defunto avrebbe loro destinato in ragione del vincolo familiare o parafamiliare. Secondo la Corte di Cassazione, tale pretesa può trovare fondamento tanto su precetti normativi (artt. 143, 433 c.c.), quanto nella pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume. Di conseguenza, se il defunto era vincolato al rispetto di obblighi di contribuzione (art. 143 c.c.) e di corresponsione degli alimenti (art. 433 c.c.) previsti dalla legge, il danno ingiusto si concretizza in capo al titolare della posizione creditoria corrispondente, ma una specifica situazione creditoria dei superstiti suscettibile di lesione ad opera del terzo può avere anche fonte negoziale (si pensi alle convenzioni matrimoniali). Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi in cui l’aspettativa del superstite alle contribuzioni patrimoniali future da parte della persona venuta a mancare sorga esclusivamente da un reciproco rapporto affettivo e di solidarietà, la giurisprudenza – contrariamente ad una parte della dottrina che ha ritenuto che in questo caso la situazione tutelata sia di mero fatto [87] – sostiene che tale aspettativa si configuri come legittima. La Cassazione ha, infatti, riconosciuto meritevoli di tutela sia la situazione del convivente more uxorio, sia l’interesse del coniuge all’ottenimento di provvidenze diverse da quelle di mera contribuzione, nonché quello dei figli per benefici differenti dal mantenimento, qualora questi siano economicamente indipendenti. In definitiva, la natura delle provvidenze erogate in vita dal familiare scomparso può tanto corrispondere all’obbligo di mantenimento, quanto esulare da esso, comprendendo elargizioni stabili in favore dei soggetti ormai maggiorenni e autosufficienti. In entrambi i casi la perdita economica subita dal superstite si configura come danno-conseguenza della lesione del rapporto parentale o parafamiliare. La tutela dell’aspettativa del superstite rispetto alle elargizioni che gli [continua ..]
La dimostrazione dei fatti costitutivi della specifica posizione creditoria fondata su un obbligo di matrice legale o negoziale non comporta, dunque, particolari problemi, dovendo il soggetto legittimato dimostrare soltanto il proprio status familiare (coniuge, coniuge separato o divorziato, figlio, ecc.) o il particolare regolamento pattizio. Laddove, invece, a fondamento della pretesa risarcitoria venga dedotta una relazione interpersonale di fatto, occorre fornire la prova del rapporto di affezione fuori dal matrimonio. In proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sia sufficiente, perché possa parlarsi di famiglia di fatto, la semplice coabitazione, dovendosi far riferimento ad una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare che, come nell’ambito di una famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale [91]. Sulla stessa linea, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. A tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla pubblica amministrazione per fini anagrafici [92]. È stato, inoltre, precisato che il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente more uxorio e il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo con la vittima, assimilabile al rapporto coniugale [93]. Secondo un principio acquisito dalla giurisprudenza di legittimità, l’ucci-sione del marito fa venire meno l’aspettativa della moglie, fondata su criteri probabilistici desunti dall’id quod plerumque accidit, di vedere destinata una parte del [continua ..]