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1. Il caso e la sua soluzione - 2. Le spese di lite: cenni - 3. L’inderogabilità del principio di cui all’art. 2233, comma 2, c.c. nella determinazione del compenso nelle liti patrono-cliente - 4. Il decoro professionale nella liquidazione delle spese di lite - NOTE
Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dei criteri di liquidazione giudiziale degli onorari professionali all’avvocato ribadendo, nel caso di significativo scostamento dai valori minimi previsti dalla tabella allegata al d.m. n. 55 del 2014, l’invalicabilità del limite di cui all’art. 2233, comma 2, c.c. che, come è noto, preclude di liquidare compensi non consoni al decoro della professione. Con un unico motivo di ricorso, il ricorrente impugnava la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio con cui l’Agenzia delle Entrate era stata condannata al pagamento degli oneri processuali in misura pari a complessivi euro 500,00 in relazione a una causa del valore ricompreso nello scaglione da euro 1.100,00 a euro 5.200,00, e pertanto al di sotto degli importi previsti nei parametri tariffari sanciti dal d.m. n. 55 del 2014, senza addurre alcuna motivazione con riguardo alla liquidazione delle spese operata. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, cui la pronuncia in commento ha inteso dare continuità, non sussistendo più il vincolo legale dell’inderogabilità dei minimi tariffari presente nel previgente sistema di liquidazione degli onorari professionali, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale resa in ambito giudiziale previsti dal d.m. n. 55 del 2014 costituiscono criteri di orientamento della liquidazione del compenso, individuando, al contempo, la misura economica media del valore della prestazione professionale. Ne consegue che in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi il giudice è tenuto ad indicare i criteri che hanno guidato la liquidazione del compenso. La Suprema Corte, decidendo sul ricorso del ricorrente, cassa la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio per non avere questa dato conto della specifica motivazione in merito alla scelta di liquidazione delle spese al di sotto dei parametri. La pronuncia in commento costituisce un’occasione per svolgere alcune riflessioni sulla portata del decoro professionale nei casi di liquidazione giudiziale degli onorari del difensore.
L’introduzione dell’obbligo per i professionisti di assicurarsi per la responsabilità civile nei confronti dei clienti [1] e dei terzi [2], da un lato, e l’aumento della sinistrosità, per usare un tecnicismo assicurativo, dall’altro, hanno portato le compagnie di assicurazione ad elaborare condizioni di garanzia che rispondano soprattutto all’interesse delle compagnie stesse di contenere il più possibile l’obbligo risarcitorio [3]. Tra le clausole contrattuali volte a limitare gli esborsi vi sono quelle che accordano alle compagnie assicurative la facoltà di assumere direttamente la gestione delle vertenze giudiziali intentate contro l’assicurato, con il sostegno delle relative spese di difesa. Per la diversa ipotesi di gestione dei procedimenti giudiziali da parte dell’assicurato, i contratti di assicurazione prevedono talvolta l’obbligo per le compagnie assicurative di farsi carico, previa espressa approvazione del legale designato dall’assicurato, delle spese legali sostenute da quest’ultimo per resistere in giudizio. Gravando in tali casi l’obbligo di sostenere le spese legali sulle compagnie assicurative, l’esistenza di norme inderogabili per la determinazione dei compensi dell’avvocato si mostra di notevole interesse anche per il diritto assicurativo. Occorre anzitutto precisare che con il lemma «spese» il codice di rito (artt. 91 e 92 c.p.c.) opera un generico e non meglio definito riferimento a tutti gli esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo del processo, ossia a tutti gli oneri economici relativi ad attività direttamente coordinate con lo svolgimento del procedimento giudiziale [4]. Tali oneri, necessariamente eterogenei, possono essere suddivisi in due tipologie: a) esborsi che assumono il carattere di veri tributi (contributo unificato per l’iscrizione a ruolo della controversia, imposta di registro) o di pagamento di diritti per prestazioni espletate da funzionari statali (cancellieri ed ufficiali giudiziari), dunque riconducibili ad un corrispettivo per la prestazione del servizio giustizia ad opera dell’apparato statuale (c.d. costi giudiziali); b) compensi versati a soggetti privati (difensori, consulenti tecnici, custodi) per attività espletate nell’ambito del processo, inclusi i costi [continua ..]
Anche la l. 31 dicembre 2012, n. 247 («Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense»), con la quale si è tra l’altro introdotto l’obbligo di assicurazione per gli avvocati [12], ha inciso sulla materia in esame. Il comma sesto dell’art. 13 della citata legge stabilisce che i nuovi parametri valgono non solo (come ai sensi del summenzionato comma 2 dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012) in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ma anche, molto più in generale, «quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale (…) e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge». I nuovi parametri si inseriscono però in un quadro legislativo più ampio delineato dalla disciplina codicistica relativa alla determinazione del compenso del prestatore d’opera intellettuale. Ai sensi dell’art. 2233 c.c., le fonti per la determinazione del compenso professionale sono la convenzione tra le parti, le tariffe e gli usi; in loro mancanza il compenso è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale cui appartiene il professionista. La norma in esame sancisce, dunque, in linea di principio, la prevalenza della volontà delle parti su ogni altro criterio di determinazione del compenso [13]. Qualora il compenso non sia stato fissato pattiziamente, lo stesso dev’essere determinato secondo le tariffe, che hanno pertanto valore sussidiario [14]. Nell’ipotesi in cui il compenso non possa essere individuato sulla base di pattuizioni private, ovvero di tariffe o di usi, la sua determinazione avviene ad opera del giudice, sentito il parere (obbligatorio ma non vincolante) dell’associazione professionale cui il professionista appartiene [15]; in ogni caso, però, la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione (art. 2233, comma 2, c.c.) [16]. Secondo una prima tesi, il comma2 dell’art. 2233 c.c. opererebbe solo con riguardo ai compensi determinati (sulla base – delle tariffe oppure, da ultimo – dei parametri o degli usi) dal giudice, non anche [continua ..]
Occorre tenere distinto il caso, appena illustrato, in cui il giudice sia chiamato a decidere della lite tra patrono e cliente sul pagamento del compenso, dalla fattispecie, concettualmente ben diversa, relativa alla statuizione giudiziale sulle spese di soccombenza alla stregua dell’art. 91 c.p.c. o nelle ipotesi residue in cui la prestazione è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge (art. 13, l. 31 dicembre 2012, n. 247). Nel primo caso, come si è visto, il giudice deve attenersi anzitutto ai criteri legali sovraordinati indicati all’art. 2233 c.c., e solo quando il corrispettivo sia così elevato da perdere qualsivoglia giustificazione alla luce dell’attività svolta ovvero sia così contenuto da non apportare al prestatore d’opera nemmeno quel minimo ristoro che gli si deve per l’attività svolta diligentemente può, se si accoglie l’orientamento dottrinale suesposto, sostituire all’autonomia privata la propria determinazione discrezionale commisurata ai parametri. Nel secondo caso, al contrario, il giudice deve in via principale determinare ex officio (art. 91 c.p.c.) la misura di un debito che non ha fonte negoziale, che rappresenta un debito diretto di una parte processuale verso l’altra, e che di per sé non è destinato ad avere riflessi sul rapporto contrattuale cliente-patrono [32]. Questo potere officioso di regolamentazione delle spese del processo appartiene al giudice in via primaria ed esclusiva («condanna la parte soccombente al rimborso [...] e ne liquida l’ammontare»); a differenza del primo, è del tutto sottratto all’autonomia privata [33]; e può essere discrezionalmente temperato o modulato attraverso un potere di compensazione totale o parziale o di condanna per singoli atti (che ovviamente non esiste nella prima ipotesi) [34]. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha ribadito che i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le stesse soglie numeriche di riferimento previste dal d.m. n. 55 del 2014 costituiscono criteri di orientamento della liquidazione del compenso, individuando, al contempo, la misura economica standard del valore della prestazione professionale. In questo ambito, per effetto dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012, il parametro ha sostituito [continua ..]